ESCLUSIVA / La TransAm di Omar Di Felice: «Ho rischiato l’ipotermia, dormito in un cimitero e mangiato solo hamburger»

Omar Di Felice durante una sosta della TransAm Bike Race (Foto Omar Di Felice)
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E’ stato il primo italiano a conquistare la TransAm Bike Race, ma per Omar di Felice vincere non era l’obiettivo primario. Voleva misurarsi di nuovo con se stesso, semplicemente prendere la bici e pedalare. Non riesce a vedere la straordinarietà di una cosa che per lui è diventata normalità. Si trova ancora in America e rientrerà in Italia mercoledì mattina. Ma non passerà da casa, farà rotta direttamente verso la Maratona delle Dolomiti, su quelle montagne dove è nata la sua passione per le due ruote.
E così, in attesa di vederlo a Corvara, lo abbiamo contattato per farci raccontare le emozioni provate alla TransAm Bike Race e tante altre curiosità.

Omar, ti rendi conto di quello che hai combinato?

«Vi dico la verità, ancora no. La TransAm è stata di sicuro la prova più dura a cui ho partecipato. Ma continuo a considerarla come un giro in bicicletta».

Un giro di 18 giorni…

«Sì, è vero, un po’ lungo come giro. L’idea di affrontare di nuovo questa corsa è partita da lontano. E’ stato come chiudere un cerchio».

Ti va di raccontarcelo?

«Quando ho iniziato con l’ultracycling la gara più iconica era la RAAM, la Race Across America. Ma è una traversata che rispetto alla mie caratteristiche fisiche c’entra poco. E’ vero che c’è tutta la parte delle montagne, ma le salite alla RAAM sono dei lunghi falsopiani. E non è unsupported, non si sposa molto con il mio modo di andare in bici. Poi è nata la TransAmerica, che è lo sviluppo più estremo della RAAM. Così nel 2019 l’ho affrontata per la prima volta, terminando terzo. Ho concluso in venti giorni. In quel momento ho pensato “Ok, bellissima, ma non tornerò più perché ho fatto il massimo”».

E poi invece?

«E poi ci ho ripensato. Quest’anno, tornato dall’avventura in India, mi sono iscritto. Ho detto “Proviamoci e vediamo cosa succede”. Non sono partito con un obiettivo preciso in mente, ma cercando di mettere a frutto tutta l’esperienza della prima avventura. E mi sono ritrovato i primi giorni con una condizione super. Stavo benissimo. Così ho deciso di affrontarla giorno per giorno, acquisendo confidenza e fiducia».

L’impegno di un ultracycler è solitario. Ma lungo la strada hai trovato tanti tifosi...

«È emozionante perché quando parti sei solo, con tutte le tue cose stipate nelle borse e più o meno per venti giorni sai che dovrai cavartela senza aiuti. Non parlerai la tua lingua, non incontrerai amici e sarai lontano da casa. Trovare qualcuno che ti aspetta a bordo strada, con un cartello o una bandiera, è veramente speciale. Quel qualcuno ha atteso proprio te, per vederti passare solo per pochi secondi. E’ un tifoso che merita un tuo applauso e ti dà tanta motivazione. Dà un senso a quello che stai facendo».

Da questa risposta si capisce che ti diverti ancora come il primo giorno…

«Esatto. Faccio quello che mi piace di più e sto realizzando quello ciò ho sempre sognato. Sono uno di quelli che quando conquista qualcosa si chiede come ha fatto, se è davvero reale. Due anni e mezzo fa ho compiuto 40 anni e in quel momento ho guardato indietro e ho capito che ho ottenuto più di quanto mi aspettavo. Da quel momento mi sono goduto tutti i chilometri che ho pedalato e sono arrivati i risultati più importanti. Sto riscoprendo il piacere di andare in bicicletta, come quando ci andavo da ragazzino».

La maturità ti fa andare più forte?

«La maturità ti dà la consapevolezza della tua forza e dei tuoi punti deboli. Capisci come gestirti in ogni occasione. E’ quello che non avevo 10 anni fa. Prima puntavo molto sull’allenamento e sulla performance. Adesso è il contrario, magari mi manca qualcosa, ma dal punto di vista mentale so sempre come comportarmi, ho il controllo del mio corpo ed è quello che fa la differenza».

Quando è nato l’Omar di Felice di adesso? C’è stato un evento che ti ha fatto capire che potevi intraprendere questa carriera?

«E’ stato un processo naturale. Fin da quando ho cominciato ad andare in bici mi sono sempre posto obiettivi diversi. Quando ho smesso di correre da dilettante e ho fatto la stagione con l’Amore&Vita, ho pensato che si sarebbe chiuso un capitolo, ma non il mio libro con il ciclismo. E proprio negli anni in cui pedalavo e lavoravo ho iniziato ad allungare le distanze e ho capito che mi piacevano. Il viaggio a Santiago de Compostela mi ha mostrato che potevo provarci. E’ nato tutto da lì. E ho iniziato anche a raccontare le mie avventure. Da quel momento è diventato il mio lavoro. Non cercavo la popolarità, mi interessava fare qualcosa di bello».

Perché hai deciso di raccontare le tue avventure scrivendo libri?

«I social network in questo momento la stanno facendo da padrone, ma resto dell’idea che oltre al contenitore, deve esserci anche il contenuto. A me piace molto quando incontro persone che mi conoscono perché hanno letto i miei libri. Voglio lasciare una traccia di quello che faccio, ma senza legarmi troppo a un solo modo di comunicare. Ci tengo tantissimo a scrivere. Il libro apre delle suggestioni incredibili e ti fa vivere la storia. Leggo moltissimo e molte ispirazioni le ho tratte proprio leggendo storie e biografie di persone che hanno fatto cose eccezionali. Il libro per me è e rimane un obiettivo importante».

Torniamo alla TransAm. Qual è stato il momento più duro?

«Sicuramente l’ultima notte. Avevo 100 miglia di vantaggio e fuori c’era un tempo inclemente da due giorni. In Virginia ha fatto un freddo assurdo e io avevo spedito tutti gli indumenti invernali all’arrivo, per essere più leggero. L’ultima notte ho rischiato di finire in ipotermia. Mi sono fermato al villaggio di Mineral a bussare alla porta di un B&B. Ero congelato. Ho fatto una doccia, sono stato due ore ad asciugare i vestiti col phon. In quel momento il vantaggio è sceso a 25 miglia. Quello mi ha dato la spinta per uscire di nuovo, anche sotto il diluvio, anche se ero immobilizzato dal freddo».

E il momento decisivo?

«In Missouri. Ho fatto di tutto per prendere l’ultimo traghetto delle ore 20,40. Sono stato l’unico a riuscirci e lì ho capito che potevo farcela».

E quello più bello, il primo che ti torna in mente di questa avventura?

«Uno su tutti, attraversare il parco di Yellowstone di notte e l’alba del giorno dopo. L’emozione di pedalare al buio con i rumori degli animali in sottofondo. Ad ogni istante immaginavo che da un momento all’altro un orso mi attraversasse la strada. Una giornata adrenalinica.

Come hai gestito il sonno in America?

«Ho dormito una media di 3-4 ore al giorno. E parlo solo del sonno. L’ultimo giorno mi sono gestito con molti “microsonni”. Ogni due ore di pedalata facevo un microsonno da 15 minuti».

E in questo caso dove ti fermi?

«Ah, letteralmente dove capita. Pensate che all’ultima sosta ero talmente “cotto” che mi sono buttato su un prato lungo la strada. E solo al risveglio ho capito dov’ero. Ho aperto gli occhi e mi sono reso conto di essere in un cimitero».

Con quanti chilometri sei arrivato alla TransAm?

«Di solito chiudo l’anno tra i 30.000 e i 40.000 chilometri ma molto dipende dalle gare che affronto. Sono arrivato alla partenza della TransAm con 12.000 chilometri circa. Non tantissimi se ci pensate. Anche perché non puoi finirti con gli allenamenti prima di una prova del genere. Devi gestire 20 giorni in cui dormi poco e male: arrivarci fresco è determinante».

Quanto ti ha aiutato in questa avventura tutto quello che hai passato negli ultimi anni? La mente è andata all’Antartide?

«Dell’Antartide mi chiedono in molti, ma non ha influito. E’ un argomento che prima o poi riprenderò. In questa TransAm ho applicato quello che ho imparato negli ultimi anni, dalla gestione del sonno all’ottimizzazione delle pause. Dei primi tre del podio sono stato quello che ha dormito più di tutti, quello che ha “sprecato” più tempo fermo. Ma è servito per ricaricare le energie. Ed è paradossale che ho rischiato l’ipotermia in Virginia dopo tante avventure passate al freddo, dopo essere stato al Circolo Polare Artico e in Antartide…».

Perché hai deciso di spedire gli indumenti pesanti?

«E’ stato un rischio, ma calcolato. Sono partito con la borsa posteriore, una doppia frame bag e una borsa anteriore sotto il manubrio. Ma per caratteristiche sono uno che pedala molto in fuorisella, quindi la presenza della borsa posteriore si sente parecchio. Appena ho potuto, in Colorado, l’ho spedita all’arrivo inserendo dentro tutti i vestiti invernali. Più avanti ho alleggerito ancora la bici e mandato all’arrivo anche la borsa anteriore, un prototipo dalla Miss Grape che si alloggia sotto le prolunghe del manubrio».

Cosa si pensa nei momenti di solitudine di una TransAm?

«Credo che ogni ultracycler abbia il suo “rimedio”. Io cerco di svuotare la mente dai pensieri negativi. Non penso mai a quanto manca, non mi perdo mai in calcoli. Cerco di focalizzarmi su obiettivi intermedi: la prossima sosta, la prossima città. Pensate che sul Garmin non ho mai la schermata dei chilometri, ma sempre e soltanto la mappa. Non voglio lasciarmi influenzare dai dati».

E dentro le orecchie? Hai una musica che ti accompagna?

«Ascolto qualche podcast, magari nella cuffia destra, a basso volume. A volte anche un po’ di musica, ma solo nei momenti in cui mi devo svegliare».

Chiudiamo con il cibo. Cosa hai mangiato durante la TransAm?

«Sul cibo stendiamo un velo pietoso. Diciamo soltanto che in America mi sono dovuto adattare. Sono andato avanti ad hamburger e pacchi di biscotti alle aree di sosta».

Ma quanto ti è mancato il “tuo” gelato?

«Non solo il gelato! Mi è mancato mangiare normalmente. Mercoledì torno in Italia e appena arrivo a casa mangio una pizza, una cacio e pepe e un gelato. Devo rimettermi in pari».