Pochi abitanti, nemmeno mille o forse poco di più. Tra quelli, in una casetta, abitava insieme a mamma, papà e un bambino, Silvia. Brava, silenziosa, ubbidiente. «Dei due, mio fratello era quello scatenato e io quella che quando mamma mi metteva seduta su una sedia e mi diceva di non muovermi, rimanevo lì per ore».
Mentre passava il tempo ferma ad aspettare il via libera di mamma, Silvia sognava. Dalla finestra scorgeva le colline del canavese. Tutt’intorno la città metropolitana di Torino, le grandi distese di verde erano colorate di vita. Dietro le colline, c’erano le montagne. E Silvia le sognava. Tutti i giorni e tutte le ore.
Un giorno, un po’ per ribellione alle ore passate ferma e ubbidiente, ha preso un paio di scarpe, le ha allacciate, e si è incamminata verso il verde delle colline. Un piede davanti l’altro, un passo dopo l’altro, la frequenza aumenta, ancora di più. Ora Silvia corre, veloce e sempre di più verso quelle colline. «Avevo scoperto i colori. Il mondo era bellissimo e colorato».
Ogni giorno dopo scuola l’appuntamento: un bel nodo ai lacci delle scarpe e via a correre più che poteva, magari non troppo veloce, ma sempre più lontano nel verde di quelle colline e nei suoi colori.
«Ricordo la mia prima gara. Una di quelle da una manciata di chilometri, sei, che si corrono in paese la sera. Sono arrivata terzultima, ma nel momento in cui ho passato il traguardo mi sono sentita viva veramente. Una sensazione mai provata prima. Era sera ma il buio della notte non poteva ingannarmi: di nuovo vedevo tutto a colori».
Dopo quella notturna, Silvia sapeva cosa doveva fare: ricercare sempre quell’emozione. Allora cartina alla mano, zainetto in spalla, scarpe comode e via. Era giunto il momento di andare oltre le colline e iniziò ad inerpicarsi sulle montagne. «Quando raggiungevo la vetta della montagna, per me era l’infinito».
A 34 anni, però, cala il buio che non aveva mai conosciuto. «Mi ritrovo con una busta in mano. La apro e nel foglio c’era la parola “cancro”». Silvia fino ad allora era stata una podista, correva a livello agonistico, lo sport le aveva insegnato ad essere competitiva. Quegli insegnamenti li ha portati nella sua nuova sfida in salita.
«Gli allenamenti erano diventate le varie sedute di chemioterapia e la mia squadra era formata da medici, volontari e amici. Quando tornavo a casa, con la più grande fatica cercavo di alzarmi dal divano e fare una passeggiata di un chilometro intorno a casa. Il giorno dopo ne aggiungevo un altro, poi un altro e un altro ancora. Questo mi ha portato a raggiungere il mio traguardo: la vita».
La malattia ha tolto tanto a Silvia in quanto donna e in quanto sportiva perché le ginocchia non potevano più sopportare lo stress della corsa. Così, a 38 anni, decide di comprare la sua prima bici. «Era vecchia, di terza mano, con un telaio di alluminio e un cambio Shimano molto datato. Io non sapevo se mi potesse piacere perché, a parte da piccolina, la bici non l’avevo quasi mai usata. Ma nel momento in cui ho agganciato i pedali, quando ho sentito quel click magico, io mi sono sentita di nuovo come quando avevo passato il mio primo traguardo da ragazzina. Viva. E tutto era colorato».
Un colpo di pedale dopo l’altro, la catena della bici girava solo grazie alla sua forza e il paesaggio intorno a Silvia cambiava. Ora vedeva di nuovo le colline verdi con tutte le sue sfumature di colore, le montagne che erano lontane si avvicinavano sempre di più.
Nel 2021, in uno studio medico, qualcuno col camice le comunica che dovrà fare un ennesimo intervento chirurgico, il dodicesimo. «Non mi sono fermata a pensare “perché a me”, piuttosto mi sono domandata come potevo unire le mie passioni, la bici e la montagna, a un qualcosa di utile. Volevo in qualche modo dare un aiuto a qualcuno esattamente come era stata data a me la possibilità di curarmi. Così nasce l’idea dell’everesting».
Silvia sceglie una salita vicino a casa, la Serra morenica, e decide di percorrerla avanti e indietro fino a raggiungere il dislivello positivo pari a quello del Monte Everest: 8.848 metri. «Tutto questo l’ho fatto per poter contribuire alla ricerca sui tumori femminili portata avanti dalla Fondazione Umberto Veronesi».
A mezzanotte del 4 settembre 2021 Silvia parte per quello che ha chiamato “Everesting di Silvia”: per 343 chilometri ha percorso il tratto di salita della Serra morenica arrivando a quota 8.912 metri di dislivello positivo in 18 ore e 11 minuti. «Al di là di quelli tecnici, il dato più emozionante per me è la cifra raggiunta con le donazioni: €14.000 totalmente devoluti alla Fondazione Umberto Veronesi».
A detta di molti, l’everesting di Silvia è sembrato quasi una tappa del Giro d’Italia. Chi a bordo strada, chi di corsa e chi a pedalare con lei: tantissimi avevano voluto essere presenti per condividere il messaggio.
A ottobre, dopo il dodicesimo intervento, era nella stanza dell’ospedale quando, fissando le gocce di flebo che cadevano una dopo l’altra, rivive le emozioni vissute negli anni precedenti e nasce l’idea di fermarle per metterle nero su bianco. «Così scrivo il mio libro. Non tratta la malattia e nemmeno un’impresa sportiva. È piuttosto un libro che parla di colori, perché mi hanno sempre accompagnata sia nelle salite che mi ha riservato la vita che in quelle che mi ha offerto la montagna. Per questo l’ho intitolato “I colori della salita”».
Anche tutto il ricavato del libro, la cui prefazione è del primario di oncologia dell’ospedale Molinette di Torino, è devoluto alla ricerca. In particolare, ad un’associazione che ha sede a Chivasso e che si occupa dell’assistenza al paziente oncologico e di tutto ciò che lo circonda.
«La vita è piena di salite e nessuno è preparato a questo. A volte possiamo essere colti impreparati, ma una cosa per certo io la so: voglio continuare a morderla questa, strana, a volte difficile, ma sicuramente unica vita».