ESCLUSIVA / Tosato: «L’Inter e la bicicletta. Così ho messo insieme le mie due passioni»

Francesco Tosato, 35 anni, è arrivato a Istanbul per la finale di Champions. Credit: Tosato
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Ah, l’amore. Muove le stelle, allinea i pianeti. E ti fa pedalare 1.600 chilometri per andare a vedere la finale di Champions League della tua squadra del cuore. Francesco Tosato, 35 anni, mantovano, una gioielleria a Verona, è arrivato ieri a Istanbul per tifare la sua Inter contro il Manchester City. E’ solo l’ultima tappa di viaggio lungo una stagione (calcistica): Francesco si è fatto in bici tutte le trasferte dei nerazzurri. Alla finale di Champions non poteva mancare. «Tensione zero. Ero a Madrid. Ma qui so che è una mission impossible. Se succede di vincere succede e basta. Prima ho visto Zanetti, un interista si identifica sempre con il Capitano. Mi ha detto: “Grande Francy, ti meriti tutto”. Che gioia». Francesco è innamorato fisso dell’Inter: «Così ci sono nato, quando sono venuto al mondo ero già interista». E innamorato folle della bici: «E’ una droga, non posso farne a meno»

Altro che calcio, com’è nata la passione per la bicicletta?
«Semplicemente ammirando il più grande di tutti, l’immenso Pirata, Pantani. Ogni volte che ne parlo mi viene da piangere. Ero piccolo, avevo undici anni la prima volta che lo vidi. Ricordo quando scattava. Il suo è un pensiero fisso. Ce lo hanno portato via troppo presto. La bici è lui. Ma è anche un modo per far capire che puoi raggiungere un posto adattandoti a tante cose e senza inquinare. E’ libertà di spostarsi e vivere. Io le colleziono anche, le bici».

L’Inter e la bicicletta, le due passioni di Francesco. Credit: Tosato

Lei viaggia da solo.
«Sì, sempre. La bici è qualcosa che ti rende indipendente. Uno dice: ok, ma sforzo fisico? Stai dieci, quindici ore in bicicletta. Ma a un certo punto non è più lo sforzo fisico, è qualcosa di mentale. La solitudine ti può uccidere, ti può demotivare. E’ quella la vera forza che serve per pedalare da solo. Ne ho parlato anche con il ct Bennati». 

Siete amici?
«Lo siamo diventati. Doveva venire anche con me a Istanbul, ma poi ha avuto impegni personali. Ha sempre avuto grandi parole per me, per quello che faccio. Sapendo cosa vuol dire fare allenamenti duri da soli, cosa significa fare la vita del gregario o del corridore di media categoria. Cosa vuol dire affrontare 1.500 chilometri. Mi ha scritto lui su Instagram. Da lì ci siamo scambiati opinioni durante questo ultimo Giro. Il mio mito degli ultimi anni è Roglic. Gli ho sempre detto che avrebbe vinto lui, lui non mi rispondeva…» (ride ndr).

Quante bici ha?
«Della collezione non parlo. Ho solo bici da corsa. Posso dire che ne ho alcune che hanno fatto la storia del ciclismo, bici che sono riuscito ad avere da amici, o cercandole in giro per l’Europa. I cimeli mi piacciono. Anche le magliette dei ciclisti, se le trovo me le compro. Un altro idolo è Sagan». 

Francesco Tosato con Javier Zanetti. Credit: Instagram Tosato

Com’è nata l’idea di seguire in bici l’Inter in tutte le trasferte?
«Per caso. Prima giornata: Lecce. Dai, vado. Mi faccio pure una vacanza in Salento. Novecento chilometri in tre giorni. Era la più lunga, poi non mi sono più fermato, le ho fatte tutte. Roma, Udine, Oporto…».

La più difficile?
«Oporto. Un viaggio di venti giorni, ma dieci sotto la pioggia».

E questo viaggio in Turchia?
«Terribile. Non è un posto dove puoi pedalare, non esistono ciclabili, non esistono strade consone per andare in bicicletta. La cosa più sbagliata di un viaggio come questo è programmare e pianificare seguendo i vari gps e tutto quello che è tecnologico. A livello di strade, qui, non è possibile. In Bulgaria ho avuto paura di morire. Sono stato inseguito da due cani, mi volevano mangiare».

La buonanotte di Francesco alla sua Nemo tig gravel

C’è qualcosa che si porta sempre dietro?
«Alla bici tengo legata una coccinella, un pelouche della Trudy che mi ha regalato Carlotta, la mia compagna. E’ un segno d’amore. E poi con me ho una bandierina piccola dell’Inter che ho fatto benedire a Santiago de Compostela. Quando parto Carlotta mi dice sempre: “Stai attento”. Parto sempre di notte, per guadagnare tempo. Pensa te la casualità: alla finale di Coppa Italia non avevo le borse con me e nemmeno la bandiera. A Roma mi hanno investito. Semaforo rosso, uno mi centra. Ho il braccio pieno di lividi».

In Italia è diverso?
«La cultura per i ciclisti in Italia non esiste, non come esiste nel resto d’Europa. In Spagna e in Portogallo il metro e mezzo lo rispettano, in altre parti no. Però in questi viaggi ci sono anche momenti di grande bellezza».

Per esempio?
«Sulla strada per Istanbul ho incontrato un ragazzo italiano, stava facendo Firenze-Bucarest. Abbiamo fatto la strada insieme fino a Belgrado. Mi dice: “Dove pensi di arrivare tu?”. Erano le 11 di mattina. A Belgrado mancavano 150 chilometri. Siamo arrivati alle 22. Mi piace dare forza alle persone, vedere la volontà di credere in quello che fanno. In cose del genere non devi pensare ai chilometri. Devi guardare l’obiettivo, non prefissarti un orario». 

Qual è il più problema più grande in questo genere di imprese?
«A livello pratico la capacità di dosare le proprie energie. Devi sempre pedalare e in questo il tuo corpo dopo tot volte che lo fai si abitua. Ma certo bisogna avere attenzione e preparazione».  

A casa cosa le dicono?
«La mia compagna Carlotta mi supporta in tutto, la mia famiglia anche. Magari ogni tanto mi dicono che sono un pazzo. Forse. Ma la follia è in ognuno di noi. Bisogna vedere come applicarla. La mia è una follia spontanea, che cerca di capire il sacrificio».

Se l’Inter vince farà un altro viaggio?
«Devo andare ad Atene per la Supercoppa».