Sicurezza alle Gran Fondo: quanto costa e quanto è difficile realizzarla

Sicurezza
Se si vuole organizzare una prova in sicurezza, circa il 30% del budget deve essere speso in questo.
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La Berghem #molamia quest’anno si è disputata lo scorso 15 giugno ed è stata un grande successo. Oltre duemila iscritti per la prova del Prestigio, valida come alternativa fai da te. Parlando con l’organizzatore, Mauro Zinetti, abbiamo analizzato il dato della sicurezza. Zinetti ci aveva fatto notare un dato interessante. Se si vuole organizzare una prova in sicurezza, circa il 30% del budget deve essere speso in sicurezza. Solo così si può garantire anche il divertimento. E la Berghem quest’anno ci è riuscita alla grande (leggete qui come è andata l’ultima edizione). Ma prendendo spunto da questo argomento, trattato nel tempo anche con Vittorio Mevio di GS Alpi, abbiamo provato a entrare nel merito anche con Emiliano Borgna, vicepresidente ACSI e presidente di ACSI Ciclismo. La sicurezza è sempre la base per un’organizzazione virtuosa.

Emiliano, si fa un gran parlare di sicurezza. Ma in cosa consiste la sicurezza in una gran fondo?
«La sicurezza è uno dei due capisaldi su cui fare leva per organizzare bene. L’altro è il divertimento. E sono strettamente legati tra loro. Organizzare una Gran Fondo in sicurezza significa fare il massimo per proteggere chi pedala, dal primo all’ultimo. Poi l’incidente può sempre avvenire, ma ci sono dei protocolli da rispettare e investire in questa voce è sempre un’ottima soluzione. I ciclisti lo sanno ed è per questo che premiano sempre le prove più sicure».

Cosa concorre alla voce sicurezza?
«Ci sono tantissimi elementi. Ambulanze in punti fissi e mobili, staffette, medici in moto, ASA. E poi, soprattutto, i volontari, quelli che prestano servizio agli incroci. A volte si va anche oltre il 30 per cento del budget totale di una Gran Fondo».

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In termini di sicurezza, la modifica della legge Pella, che ha dato alle prefetture l’ultima parola, ha semplificato le cose per gli organizzatori?
«Sicuramente le ha velocizzate, ma c’è da perfezionare l’iter. Il grande problema è che non c’è omogeneità a livello di amministrazioni. Ci sono prefetture che prendono a cuore il problema e altre che un po’ fanno spallucce. Di sicuro faremo una tavola rotonda nei prossimi mesi, proprio su questo argomento».

Non si rischia di parlare con un organo che delle problematiche del territorio è poco informato?
«Sì, a volte ci può essere questo rischio. Dal punto di vista organizzativo, l’iter è più semplice ma c’è una responsabilità in più. Tutto sta nel dialogo con il territorio. Parliamo spesso della professionalizzazione dell’organizzazione, ma è processo difficile. E alla fine si accenna sempre al ricambio generazionale nei ciclisti, ma serve anche negli organizzatori. Però ci sono dei casi virtuosi».

Ci puoi fare un esempio?
«Prendiamo la Gran Fondo Le Alpi del Mare di Mondovì. E’ una prima edizione, ma sono stati bravi perché hanno fatto un accordo di tre anni con le amministrazioni locali. Questo può portare crescita. Tutti quegli eventi che lavorano sulla sicurezza ottengono numeri».

C’è anche il retro della medaglia dei disagi del traffico però…
«Va considerato. In tanti hanno paura del ritorno negativo, delle polemiche sulle file, sulle code e le sospensioni veicolari. Spesso sono i cittadini a mettersi di traverso. È sempre difficile trovare una soluzione».

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Emiliano Borgna, vicepresidente ACSI.

La Berghem #molamia potrebbe essere un esempio, con un percorso lungo che si trasforma in randonnée?
«Sì, lì sono bravissimi e hanno tantissima gente al controllo degli incroci. Ma anche alla Top Dolomites hanno lavorato tanto e bene. Il segreto per una buona riuscita è lavorare a contatto con l’amministrazione locale. Se l’amministrazione vuole l’evento e capisce il potenziale, è il primo passo per avere successo. Poi bisogna trovare una quadra».

Per legge la sospensione veicolare è di 15 minuti: non è un po’ poco?
«In 15 minuti non si tiene chiusa la corsa, è ovvio, ma la legge impone almeno questo. Il disciplinare dà la possibilità al direttore di corsa di gestire la chiusura. Oppure bisogna fare come Vittorio Mevio a Laigueglia, o Massimo Stefani alla Prosecco, che vanno a chiudere tutto con un grande lavoro con il territorio. Ma ovviamente incidono le caratteristiche del percorso e dell’area interessata. Senza viabilità alternativa non puoi tenere chiuso per ore. Alla Prosecco spesso intercettano le auto e non le vedi neanche in coda. Così non vanno neanche a incolonnarsi».

Torniamo sempre alla professionalità di prima…
«Se vuoi fare le cose bene, devi diventare un organizzatore di livello. È finita l’organizzazione improvvisata, quella non fa più felice nessuno. E si vede nei risultati».

Ti piace la formula delle discese chiuse?
«Sì, molto. Anche se poi è una questione soprattutto culturale. Siamo amatori e dobbiamo ricordarci soprattutto di rispettare il codice della strada, anche e soprattutto in discesa. Paradossalmente non servirebbe chiudere le discese se tutti rispettassero il codice. Il ciclismo è bello perché ognuno può interpretarlo come vuole, ma bisogna farlo nel rispetto di tutti. Un esempio? La Maratona quest’anno ha messo l’obbligatorietà di portare la mantellina in tasca. È un segnale forte. La gente deve capire che se si trova al freddo senza abbigliamento ha messo in difficoltà tutti».

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Siamo tutti bravi a lamentarci, insomma…
«Esatto. Siamo bravi a trovare quello che non ci va bene, ma non cerchiamo una soluzione condivisa. Come tutte le cose, il mondo granfondistico deve rinnovarsi e adattarsi ai tempi, ma c’è bisogno dell’impegno di tutti. Vogliamo il cambiamento, ma siamo poco propensi. Vogliamo essere attrattivi per i giovani? Dobbiamo diventarlo.

Come si fa?
«Dipende da caso a caso. Ma magari si può fare alleggerendo un po’ alcuni tracciati, proponendo più divertimento, più eventi collaterali, più aggregazione, meno esasperazione. Tutto bello a parole, ma se poi non ci proviamo realmente sono tutte parole al vento. I giovani forse non hanno tanta voglia di far fatica, come l’avevamo noi vent’anni fa. Sì, i costi sono più alti, ma incidono forse meno di altre cose. Ci lamentiamo che mancano gli sponsor, ma gli sponsor tornano dove ci sono partecipanti».

Ma perché noi italiani siamo ancora legati alla competizione?
«Perché la competizione è il sale di questo sport. Ma ci può essere competizione anche con altre formule. Si cambia anche facendo scelte coraggiose. Ma certo, non è facile, nessuno ha la bacchetta magica. Ma io ancora vedo che alla Prosecco c’è gente che “fa gara”. Ecco perché quest’anno hanno inserito il “tempo minimo”».

E poi però ci sono eventi che funzionano anche senza agonismo…
«Sì, ci sono delle belle eccezioni, bei messaggi come quelli del Suzuki Bike Day. A Monza è stata davvero una festa della bici e ogni anno i numeri crescono. È un punto di rottura che ci dice che lo sport è di tutti e il ciclismo può far pedalare tanta gente, come fa la Five Boro di New York e la Ride London. Si può fare anche da noi».