Una serata dolcissima, nell’incanto di piazza delle Monachette a Jesi, in cui si è parlato di violenza stradale senza rinunciare a raccontare il mondo in forma di favola ai bambini della scuola ciclismo: è la magia di Michele Scarponi, che ancora scende come una polverina dorata su quelli che sono rimasti a ricordarlo.
Primo tra tutti suo fratello Marco, che ieri ha celebrato i primi cinque anni della Fondazione con tutta una giornata dedicata ai temi cardine del suo lavoro: l’educazione stradale, l’assistenza alle vittime e alle loro famiglie, la battaglia per una normativa sempre più attenta agli utenti fragili (anche se purtroppo le leggi allo studio sembrano andare in direzione ostinata e contraria), le città 30 come regola e non più come eccezione. Tanti gli ospiti della Fondazione, un pubblico numeroso e attento. Beppe Martinelli è stato nominato «socio onorario» della Fondazione.
Clou della serata l’arrivo sul palco di quello che Marino Bartoletti ha definito «il ct più bello d’Italia», Daniele Bennati. Daniele ha raccontato di quando lui e Michele sono passati professionisti nella stessa stagione (li divideva un anno esatto di età: Scarponi nato il 25 settembre 1979, Bennati il 24 settembre 1980) e nella stessa squadra. Erano insieme (anche in camera) anche quando hanno corso la prima volta tra i professionisti, al Giro del Qatar. Ricordi che restano confinati alla serata di Jesi e che hanno divertito tutti i presenti, compresi i genitori di Michele, Flavia e Giacomo, e i suoi nipoti Attilio, Elena (che corre in bici) e Stella.
Ma quello che Bennati ha detto prima che su Jesi scendesse la notte merita di essere raccontato a tutti. «Da un anno e mezzo, da quando sono ct, sono stato contattato da politici di tutte le parti. La politica non è il mio mestiere, di quella non mi intendo e non parlo. Parlo di quello che so: l’Accpi e Marco Cavorso stanno facendo una battaglia importante per la sicurezza sulle strade. Ma se a livello politico non ci vengono dietro, non andiamo da nessuna parte. Sento sempre dire che l’Italia non è l’Olanda, ma non c’è mica bisogno di andare fino in Olanda, basta guardare la Spagna. Io ho corso gli ultimi anni della mia carriera in Spagna, e sulle loro strade c’è rispetto assoluto per i ciclisti. Le auto ti stanno dietro finché non c’è tutto lo spazio per superare, nessuno si sogna di perdere la pazienza. Non è un caso che ormai tutte le squadre vadano ad allenarsi e a prepararsi in Spagna. Da noi questo rispetto non c’è, allenarsi sulle strade italiane è un incubo. Abbiamo perso Michele, abbiamo perso nello stesso modo Davide Rebellin. Quanti altri ne dovranno morire perché la politica capisca che questa è una priorità?». Bennati si è tenuto l’ultima frase, fortissima, per il finale. «Se le cose non cambiano, il ciclismo su strada rischia davvero di scomparire». Un appello che non può rimanere inascoltato.