Enrico, il Templare in bicicletta indeciso tra scrivere e pedalare (nel dubbio scrive e pedala)

Enrico Pasini, 42 anni
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Difficile smettere quando avrete cominciato a seguire Enrico Pasini nel suo lungo viaggio, o forse dovremmo dire pellegrinaggio, o magari crociata. Lui si definisce ora templare, ora sumarnaz (traduciamo alla brutta dal bolognese: somarone), a seconda della spinta ideale del momento. Stiamo parlando di una passione che se n’è mangiata un’altra, e adesso convivono allegramente. Enrico, 42 anni, da 23 faceva l’operaio in un’azienda che decora barattoli di plastica a Zola Predosa, a pochi chilometri da Bologna, «mi sono appena licenziato, voglio provare a fare altro, mi stavo rovinando la salute». Era entrato lì appena uscito dall’istituto tecnico aeronautico. Prima aveva fatto il corridore, «due anni da Esordiente e due da Allievo nella Ceretolese, andavo bene». Poi si fece male che era estate, dovette stare fermo un mese, e fu allora che si accorse di com’è la vita di un sedicenne d’estate, «quel mese mi ha fregato». Smise di correre, ricominciò a 19 anni ma soltanto per passione. Quella che ancora oggi lo fa uscire in bici appena può. Una compagna, tre figli adolescenti in casa, «ogni volta che torno da un giro in bici mi metto lì e scrivo». Enrico ha unito tre passioni: la bici, la scrittura e la fotografia. E adesso il suo viaggio è diventato un libro («Il Templare in bicicletta», Epika edizioni, lo trovate sul sito della casa editrice o sulle principali librerie online).

La copertina del libro “Il Templare in bicicletta” (ed. Epika)


I veri protagonisti di questa sua felice odissea fra salite che gli sono familiari, anche quelle che non aveva mai intrapreso, sono i luoghi. La pandemia e l’isolamento hanno lasciato a tanti di noi la voglia di rinascere, di ripartire. Enrico lo ha fatto in bicicletta, inseguendo grandi traguardi dai nomi poetici e dalle storie avventurose e spesso tragiche, luoghi che oggi in comune hanno la pace, il silenzio, la malìa. Madonne dei Fornelli e delle Castagne, della Neve. Madonna dell’Acero, che è la cima Coppi del circuito dei Santuari. Madonna del Faggio. La Beata Vergine della Serra. Campi di grano o distese di viti pregiate, ciliegi o castagne, a seconda della stagione. Il gusto di portare sempre la bici allo stremo, di solcare le strade vuote la mattina presto, quando l’odore del caffè comincia a trapelare dalle finestre, il sabato che diventa un Natale ogni settimana, ogni sabato un giro lungo, solitario, del tuo passo, pensato, ragionato e sognato durante la settimana.


Storie che hai sentito raccontare dai tuoi nonni, e dai vecchi ciclisti che incroci lungo le cavedagne e i calanchi, tra secchie rapite e sedute spiritiche che sono passate dalla cronaca alla storia. Momenti in cui ti fermi non perché le gambe non ne possono più ma perché gli occhi vogliono gustarsi un quadro.  A Enrico le strade dritte non sono mai piaciute. Enrico va a cercare le montagne che parlano di guerra e di morti ammazzati, con la storia di tutti che si intreccia con quella di famiglia a Monte Sole. Ha scritto di quella voglia di far fatica che ti costringe a lavorare ancora di più quando esci dalla fabbrica e tiri fuori la bici e vai a finire di sfinirti lungo un sentiero oltre il 10%
Nomi che sembrano poesie. Ca’ de Mandorli. Passo dell’Oppio. Molino del Pallone. Monte Cavallo. Monte delle Formiche, sul prato dove ogni principio di settembre milioni di formiche alate di una sola specie arrivano da ogni parte d’Europa per morire ai piedi del Santuario. La scienza non sa perché ma gli abitanti del luogo sì: dicono che sia un omaggio alla Madonna di Zena e infatti il giorno della festa, l’8 settembre, si regalano sacchetti di formiche alate. 


E poi la Madonna del Ponte, che protegge i giocatori di pallacanestro. Vecchi borghi e fabbriche di caffè. E come scrive Enrico, anche chi non crede, forse non se ne accorge, ma salendo verso la Basilica di San Luca comunque prega. Posti benedetti, posti maledetti. Lì dove nel 1945 passava la linea gotica, spezzando la montagna, ora c’è un museo, a ricordare quelle atrocità. E passare da lì, fermarsi a pensare, è l’unica maniera che abbiamo per capire che niente di tutto questo dovrà succedere mai più. Un viaggio nella storia, inoltrandosi negli sterrati, nei territori inesplorati, spegnendo il rumore del mondo, gps compresi. Impossibile fermarsi prima di essere arrivati alla parola fine.