Giornata mondiale della bicicletta / De Marchi: «Se vogliamo salvare il mondo, ci aspetta una salita molto dura»

Alessandro De Marchi, 37 anni, friulano di Buja, ultima maglia rosa italiana al Giro
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Alessandro De Marchi, è la giornata mondiale della bicicletta.

«E io non lo sapevo, quindi forse qualcosa non va nella comunicazione di questo evento».

Che cos’è per te – 37 anni, professionista da 12, ultima maglia rosa italiana – la bicicletta? La vedi ancora come quando eri un bambino?

«In realtà no. Ho ricordi lontanissimi di una bici blu con le rotelle, ma allora non l’ho mai apprezzata davvero, ero troppo concentrato sull’aspetto agonistico, ero molto competitivo. Da ragazzino la vedevo solo come un mezzo per fare gare e allenarmi. È soltanto crescendo che le ho dato anche un’altra sfumatura, ho capito che con la bici puoi davvero interpretare la vita in modo completamente nuovo, è un mezzo di trasporto diverso da tutti gli altri. Da ragazzo non avevo mai pensato di poterci fare una vacanza o che avrei vissuto un momento speciale in bici tutte le mattine con mio figlio Andrea».

Ce lo racconti?

«Insieme andiamo in bici a prendere il pullmino che lo porta a scuola. Ovviamente ci costa un piccolo sacrificio, svegliarci dieci minuti prima, ma quello che ci dà in cambio è il nostro momento quotidiano: lui mi parla, mi racconta, io chiedo. Non me lo vorrei mai perdere».

Prima del Giro, al Tour of the Alps, Tao Geoghegan Hart ci parlava in modo molto poetico del vostro lavoro, uno sport che può cambiare la nostra vita, mantenerci in salute e salvare il pianeta.

«Tao ha tutta la mia stima, sto dalla sua parte, e non da adesso. Il ciclismo è qualcosa di molto più complesso e ricco di altri sport o attività che si svolgono in un ambiente diverso, al chiuso. Noi alla fine siamo a contatto con la terra, col mondo, con la natura nel senso profondo del termine, e questo dà un valore diverso a quello che facciamo e possiamo trasmettere. Mi viene in mente la cronoscalata del Monte Lussari, questa cornice meravigliosa che si è creata in un luogo carico di cose, con la gente che ha fatto fatica a venire su per vedere noi: è qualcosa di completamente diverso rispetto ad altri sport, è un modo di andare più in profondità. Non vai allo stadio, vai nel mondo».

Come si fa a convincere tutti ad andare in bici? Tanti hanno – giustamente – paura.

«Ovviamente la paura per tutto quello che succede quotidianamente non possiamo pensare di cancellarla, dobbiamo conviverci e capire e apprezzare il valore positivo di utilizzare la bici, che va oltre qualsiasi paura. Non è un passo facile ma ne varrà sempre la pena. La bici ti permette di rallentare, ed è qualcosa di cui avremmo molto bisogno come società: apprezzare di più la vita, avere più attenzione. La bici è un’alleata in questo».

Guardiamo la partenza del Tour dalla Danimarca e ci sembra bellissimo che tutti vadano in bici. Poi portiamo i bambini a scuola con il suv.

«C’è qualcosa che non va perché forse abbiamo un po’ perso la capacità di metterci nei panni degli altri, di immaginarci nella loro posizione. Così però rimaniamo fermi sulle nostre idee e non ci sarà mai convivenza vera e propria. Anche in questo la bici insegna. Se penso ai momenti in gruppo, alle corse: ci sono situazioni in cui puoi essere capitano o gregario ma alla fine si è tutti uguali, si prende la stessa pioggia, si fa la stessa fatica, la bici mette tutti sullo stesso piano. Imparare ad andare in bici è anche terapeutico».

Non abbiamo imparato neanche dal lockdown. Cantavamo sui balconi, convinti che ne saremmo usciti migliori.

«Invece ne siamo usciti uguali, se non peggiori. La lezione del lockdown è durata poco, c’è stato un momento in cui le cose le avevamo intuite però poi non si è fatto niente: le intuizioni non bastano, bisogna farle seguire dalle azioni».

Sulle cose che contano ci siamo rassegnati: la gente continua a morire sul lavoro, o sulla strada, gli uomini continuano a uccidere le donne.

«Andiamo troppo di fretta, siamo distratti, non diamo il giusto peso alle cose importanti. A me capita di pensarci quando sono lontano, a correre, e chiamo mia moglie dieci minuti prima di cena, e vedo i bambini in giardino che giocano e Anna che si siede a parlare con me e si beve magari una birra. E mi rendo conto che a volte non capiamo che è tutto lì, a portata di mano. Invece è sempre più difficile essere concentrati su quello che abbiamo, non siamo in grado di goderne, di approfittare dei momenti che abbiamo, siamo sempre proiettati in avanti, a quello che c’è dopo, al futuro».

Al futuro immediato però.

«Certo, sempre molto nel breve. Al futuro del mondo non pensiamo mai».

Alessandro De Marchi in azione. Credit: Fabio Ferrari/LaPresse

Adesso abbiamo anche i negazionisti della crisi climatica.

«Quando sento certe cose rimango allibito e stupito da tanta ignoranza, come si fa a non essere in grado di comprendere certi messaggi? Devo pensare che non ci sia disegno o malafede, ma solo ignoranza. È che non vedo davvero una soluzione immediata, ci aspetta un cammino lungo che dobbiamo cominciare a intraprendere subito con i nostri piccoli: meno cellulari e tablet e qualche libro in più. Trattandoli da bambini ma senza tenerli sotto una campana di vetro. Dobbiamo dirglielo quello che è successo in Emilia-Romagna: non è stata una disgrazia, è che non ci sono più le stagioni. E ancora una volta la bicicletta può essere una grande alleata. Ma ci aspetta una salita molto ripida, una battaglia in cui dovremo fare fatica, sacrificarci, perché abbiamo intrapreso uno stile di vita troppo comodo ma dovremmo abbandonarlo perché non ci porta nella direzione giusta. E non sarà per niente facile».

Il cambiamento climatico avrà un impatto anche sul tuo sport. Credi che fra dieci o vent’anni si potrà correre il Tour a luglio?

«Tutti gli sport saranno influenzati dal cambiamento climatico, il ciclismo più di altri perché è legato alla natura, ai vari territori. Forse succederà anche prima di dieci anni, le cose stanno andando più veloci di come pensiamo. A maggior ragione noi corridori dovremmo metterci di fronte al problema immediatamente e farci promotori di un certo cambiamento. La bicicletta può aiutarci a salvarci».