Se non è l’inferno, poco ci manca. C’è chi sulla strada mentre si allenava in bicicletta ci ha lasciato la vita. E chi, vittima di incidenti gravissimi, l’ha vista cambiare da un momento all’altro. Esistenze stravolte e ribaltate, affrontate con la forza di rovesciare la clessidra e ripartire da zero, in un percorso contraddistinto da momenti difficili. Marina Romoli il 1° giugno 2010 ha perso tanto di se stessa, ha perso parte della sua vita per acquisirne un’altra nuova: vice campionessa del mondo tra le juniores nel 2006, una macchina quel giorno le tagliò le strada provocandole la perforazione di un polmone, 500 punti di sutura al viso e un trauma alla colonna vertebrale con la frattura di alcune vertebre. Oggi su quicicloturismo con Marina Romoli parliamo della sicurezza dei ciclisti e di una strage che può e deve essere fermata: servono uno scatto culturale, l’impegno di una Federazione assente e la formazione nelle scuole.
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Marina, a dodici anni dal tuo incidente si continua a morire sulle strade italiane e la situazione non è cambiata.
«Non è proprio così perché anche a livello legislativo è stata introdotta la legge sull’omicidio stradale e le cose sono cambiate anche in positivo, in qualche modo. Purtroppo non è cambiato l’atteggiamento delle persone alla guida. Gli incidenti continuano ad accadere e le persone continuano a morire, soprattutto gli utenti deboli della strada che sono quelli che non hanno una carrozzeria a proteggerli. Questo è il fatto più grave. C’è un problema culturale, si sta facendo molto grazie alle associazioni nelle scuole, per promuovere un’idea di sicurezza stradale e di responsabilità per i giovani. Ma chi guida in questo momento sono gli adulti e non vediamo un riscontro immediato. Anche a livello istituzionale stanno facendo poco sul tema e non siamo riusciti a coinvolgere le scuole guida. Il Codice della strada non è stato aggiornato come avremmo voluto. Si spera che anche la Federazione Ciclistica sia più attiva con una maggiore copertura assicurativa e una tutela legale. Noi vediamo i morti, ma io non sono morta e sono ancora qua. Avrei voluto e avuto bisogno di un maggior supporto legale dopo l’incidente».
Tra le realtà locali c’è anche la tua Onlus: quali obiettivi avete raggiunto in questi anni e cosa avete realizzato?
«Negli ultimi due anni siamo stati un po’ fermi perché era difficile entrare nelle scuole. Per quanto riguarda questo aspetto anni fa avevamo fatto il progetto “Praticare sport in sicurezza”, con un occhio un po’ più allargato e riferito sia al ciclismo, sia al motociclismo. E poi abbiamo fatto delle fotografie e dei disegni che illustrassero come fosse lo sport fatto in sicurezza per strada. Negli ultimi anni ci siamo appoggiati un po’ di più alla Fondazione Michele Scarponi, perché alla fine questo era il loro più grande obiettivo. Noi abbiamo cercato di supportare i progetti all’interno delle scuole della Regione Marche, dove vivo attualmente. Marco, il fratello di Michele Scarponi, ogni tanto mi chiama per andare a parlare nelle scuole di sicurezza stradale: tutto questo declinato in base all’età dei ragazzini, dalla scuola dell’infanzia ai licei».
Nelle ultime settimane due giovani sono stati uccisi mentre andavano in bicicletta. Non se ne può più.
«La ricetta perfetta non ce l’ha nessuno. Anche in questo caso, bisogna andare avanti per prove ed errori. Dobbiamo smetterla di concentrarci nel parlare di sicurezza stradale soltanto alle persone che fanno parte del gruppo del ciclismo. Dobbiamo parlare all’esterno: agli haters sui Social e alle persone che sono meno dalla nostra parte, dalla parte dei ciclisti. Noi siamo persone come tutti gli altri: padri, madri, figli e sorelle come tutti gli altri. Siamo persone che vivono la strade e non la occupano. Vogliamo muoverci e fare sport come tutti gli altri. Dovremo aprirci mentalmente a chi non ci conosce, perché solo in questo modo riusciremo a migliorare le cose. Ognuno di noi dovrebbe impegnarsi a fare qualcosa nel proprio Comune: più piste ciclabili e lezioni a scuola sulla sicurezza stradale, coinvolgendo anche i genitori. Nessuno dà l’esempio più di chi vive insieme a casa. Bisognerebbe aprire più la mente e non andarne a parlare al Giro d’Italia, guardato principalmente dagli appassionati di ciclismo. Sogno uno sport aperto a tutti».
L’apertura allo sport per tutti nel ciclismo c’è: hai mai pensato di iniziare con l’handbike?
«Mi è stato proposto tante volte, ma non l’ho voluto mai fare. Ho pensato di ristrutturare e di costruire la mia vita facendo altro oltre lo sport, in una professione che potrò fare anche da seduta per molto tempo. L’handbike per me è un compenso, una via di mezzo che non è mai piaciuta. Mi sono sempre detto che se avessi fatto sport, avrei fatto anche altro per divertirmi: sto giocando da aprile a wheelchair tennis, faccio diverse cose e mi diverto lo stesso. L’handbike sinceramente mi metteva molto paura: tornare per strada, specialmente nelle mie zone con pochissime piste ciclabili è molto pericoloso».
Marina Romoli un giorno ha detto: «Io so che tornerò a camminare. La scienza corre veloce ed io ce la farò». Ci speri ancora tantissimo?
«Io ci spero sempre, ma naturalmente l’entusiasmo è calato un po’ rispetto alle prime fasi. Nei primi tempi c’era tantissima aspettativa nelle cellule staminali che poi non hanno dato i risultati sperati. Al momento si sta tornando un po’ indietro, ripartendo dalla ricerca pre-clinica. Oggi la ricerca corre, va veloce, ma dobbiamo darle tempo perché niente viene dal niente e si tratta di un processo difficile. Spero che per i più giovani, in futuro, ci sia possibilità per tutti. Io spero che tutto quello che ho fatto in questi anni e che farò dia poi risultati se non per me, ma per le generazioni future».
Pensi di diventare una testimonial di questo tema in Italia?
«Io non voglio essere né un esempio, né portare l’immagine di una ragazza sfortunata che mi va molto stretta. Gli eventi negativi nella vita accadono a tutti. Il pietismo e questo atteggiamento di vedere una persona come sfortunata è una cosa che effettivamente non aiuta nessuno. Bisogna guardare alle altre persone e capire gli eventi della vita, prendendoli come delle possibilità: dobbiamo reagire e quello che ci definisce veramente è come reagiamo alle cose. Vorrei che si dica “Questa è una ragazza coraggiosa che ha avuto la voglia e la forza di riprendersi, di ricrearsi una vita e di riuscire in qualcos’altro. Questa è una chiave di lettura interessante per chi approccia al mondo della disabilità».
Ti piacerebbe intraprendere la carriera da psicologa dello sport?
«Non lo so. In questo momento ho fatto una tesi che riguarda il mondo sportivo e i traumi cranici legati allo sport, con i loro risvolti cognitivi sia a breve, sia a lungo termine. Naturalmente cercherò di rimanere nell’ambito della valutazione dei disturbi cognitivi e della riabilitazione post trauma cranico e altri eventi che riguardano il sistema nervoso centrale. Naturalmente non disdegno il mio mondo e cercherò di dare il mio contributo anche allo sport».