Zico Pieri: dieci everesting e un record mondiale dai mille significati

Zico Pieri in azione sul Monte Petrano durante i suoi dieci everesting
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Il nome di Zico Pieri è legato a doppio filo alle parole record ed everesting. Ma l’obiettivo di Zico non è mai stato soltanto quello della competizione fine a se stessa. Molti di voi conoscono già Zico, all’anagrafe Giacomo Pieri. L’ultracycler di Cagli, classe 1973, mental coach, non è nuovo a imprese al limite e anche stavolta ne ha realizzata una fuori dal normale: un deca everesting. E per farlo ha scelto la “sua” salita, quella del Monte Petrano e un fine che vi racconteremo con le sue parole (clicca qui per il sito di Zico Pieri).

Già conquistare un everesting è un’impresa al limite. Realizzarne dieci consecutivi è un qualcosa di assurdo che si fa fatica a pensare, figuriamoci a realizzare. E’ sfidare le proprie paure e fidarsi della propria mente, spingersi oltre la conoscenza di se stessi per imparare dal proprio corpo qualcosa in più ad ogni chilometro. E questo era lo scopo di Zico Pieri, che abbiamo raggiunto telefonicamente. Sentite cosa ci ha raccontato…

Zico, la prima domanda è: perché un decaeveresting?
In tanti chiedono cosa si prova a realizzare un’impresa del genere, in pochi il perché si decide di iniziare una sfida così. Io posso dire che è un progetto che è nato da lontano ed ero come al solito in cerca di risposte.

E’ nato da lontano. Quindi quando lo scorso anno hai scalato lo Stelvio per un mese già ci pensavi?
E’ stato uno dei passi di avvicinamento. In questa tipologia di cose devi avere ben chiari i “motivi”. I progetti parlano sempre da lontano e nella presentazione del decaeveresting ho fatto riferimento a cose che ho provato lo scorso anno. Lo Stelvio Unlimited (ricordiamo che Zico ha scalato il passo dello Stelvio da Bormio, ben 100 volte in 30 giorni nell’estate 2021, clicca qui per la saperne di più, ndr) è servito anche per testarmi e capire le mie reazioni.

In che modo?
Nei primi giorni della Stelvio Unlimited ho effettuato quattro scalate al giorno, poi ho rallentato. Serviva per vedere come avrei reagito in determinate condizioni. In una sfida del genere è la mente a frenarti per prima. Perché è difficile pensare di fare tanta fatica.

In che modo la mente può fermarci?
La mente è brava nell’imbrigliarti e nel conservare le cose. Per questo spingersi oltre è difficile. Non basta avere doti fisiche, con l’allenamento si arriva fino a un certo punto. Oltrepassato un determinato limite, le risorse mentali contano molto di più.

Dopo parleremo di aspetto mentale. Ma per quanto riguarda l’allenamento, come ti sei gestito?
In tanti, finite le mie performance, mi fanno domande sul mio allenamento. Io sapevo che la mia preparazione era adeguata, ma soprattutto era orientata a questo progetto. Più che l’allenamento specifico, che arriva fino a un certo punto, serve sviluppare la capacità di adattamento alle crisi che possono sopraggiungere. E’ quello l’aspetto più difficile.

Con lo Stelvio Unlimited è nato un progetto di ricerca universitario. Continuerà con il decaeveresting?
Sì, abbiamo collaborato con l’università di Urbino già dallo scorso anno e ora abbiamo ampliato la ricerca. Abbiamo studiato gli aspetti fisiologici della performance e stiamo ancora esaminando i dati ottenuti. Uno degli aspetti più importanti, come dicevo, è lo studio psicologico di percezione dello sforzo. Abbiamo fatto dei test preliminari e durante le scalate, ripetute poi ad ogni everesting. Il medico e il mio team mi è sempre stato vicino. Questo per vedere come cambiava la performance e come il mio corpo si abituava allo sforzo fisico.

C’è stata anche una comunicazione diversa questa volta…
Sì, sono stato coadiuvato da Rossini Tv, che ha seguito tutta la preparazione, e ho realizzato anche dirette via Facebook tramite il mio canale. Ho tentato di comunicare il più possibile, ma alcune cose non sono state facili…

Quali per esempio?
Riuscire a fare capire all’esterno la portata e il significato del progetto stesso. Il decaeveresting non era finalizzato soltanto alla performance pura, ma c’era molto altro.

Raccontaci.
Non c’era soltanto una sfida sportiva, ma anche un obiettivo di promozione turistica del territorio di Alte Marche, che comprende nove comuni (Acqualagna, Apecchio, Arcevia, Cagli, Cantiano, Frontone, Piobbico, Sassoferrato e Serra Sant’abbondio, ndr). E’ un territorio bellissimo e merita di essere visitato, sia per l’outdoor che per i suoi borghi, la sua cultura, il gusto…

Perché proprio il Monte Petrano?
Io col Petrano ho un feeling e una “connessione” incredibile, l’ho scalato oltre mille volte. E uno degli elementi per abbattere la grande barriera della ripetitività è innamorarsi di una salita e di un territorio. E’ una chiave importantissima per l’interpretazione del tempo che scorre. In questo modo sono riuscito a dare un’interpretazione e un valore a ogni scalata.

Quali sono stati i momenti più difficili?
I primi due everesting sono stati tremendi. Temperatura di 40 gradi, vento forte. Avevo problemi alla schiena e contratture varie. Ero in grande difficoltà e le persone lo hanno percepito. A differenza delle altre volte sono riuscito a comunicare i momenti di difficoltà, anche perché avevo una grande pressione addosso. Non sapevo come terminare la scalata successiva. In questi casi, perdersi è molto facile. Si è creato un alone negativo e a un certo punto ho pensato: «sono a due everesting e sono già cotto…».

E a quel punto cosa hai fatto?
In quel momento sono andato avanti un passo alla volta. All’interno di ogni singola scalata ho trovato grandi difficoltà. In alcuni momenti mi sono dovuto fermare, per mangiare. Poi piano piano, nell’alternanza di sensazioni fisiche e emozionali, ho trovato un equilibrio.

Come?
Nella fase centrale ho aumentato i riposi e ho cercato di gestirmi di più, senza pensare al resto. Nel finale ho deciso di aumentare di nuovo i ritmi, volevo concludere entro i 12 giorni. Gli ultimi due everesting li ho fatti in 48 ore, dormendo poco e con una caduta in discesa, per fortuna senza grosse conseguenze, che però mi ha costretto a pedalare male le ultime sei ore. In totale, ho dormito 26,5 ore in 12 giorni.

Hai chiuso in 11 giorni, 23 ore e 46 minuti, con 2.252 chilometri e 89.650 metri di dislivello. E’ un record mondiale…
Esatto, ma come detto, non era il primo obiettivo. La certificazione dell’official world record era importantissima per il territorio. Ma era importante anche il “messaggio”, quello che si possono superare i propri limiti e le proprie paure. E volevo anche sensibilizzare il mondo dell’ultraendurance verso le regole di sicurezza, come quelle che impongono un riposo di 2 ore soltanto per everesting. La sicurezza deve essere la cosa più importante.

Infine, Zico Pieri da questa impresa, cosa ha imparato?
Ho avuto nuove informazioni ed è il risultato più grande. La sofferenza fisica non la conoscevo. Ho imparato il valore dell’incertezza e l’ho accettata in maniera tranquilla. Dobbiamo lasciare che il corpo reagisca in maniera positiva all’adattamento. Ho avuto dubbi che il mio corpo potesse non resistere, ma non dubbi sull’andare avanti. La mia mente avrebbe accettato anche la possibilità di raccontare un eventuale insuccesso. I record sono fatti per essere abbattuti e confrontarsi con gli altri è il tranello in cui nessuno dovrebbe cadere. Il vero rapporto, è sempre con se stessi.