Mattia Magnaldi corre in bici da diciassette anni e nel 2020 ha percorso 23mila chilometri. A Savona domenica scorsa nella Gran Fondo Alpi Liguri, ha rischiato di morire. Uno scenario apocalittico quello che si è materializzato sul viale d’arrivo di Savona, negli ultimi centocinquanta metri. Mattia da tre giorni è ricoverato all’ospedale di Pietra Ligure e ora sa di dover affrontare una delle gare più dure: non nasconde di aver avuto paura vedendo il sangue fuoriuscire dalla sua gamba ed è consapevole che potrà tornare a camminare tra sette mesi. Per colpa di tanti. E lo racconta su quicicloturismo.
Mattia, come stai?
«Sto veramente male. La gamba è distrutta. Il miracolo è che non c’è nessuna frattura, ma nell’impatto la gamba si è completamente piegata e mi è uscito quasi fuori il femore, però non si è rotto niente. È stata dura, poi in più ho avuto anche un’emorragia quando sono caduto e il sangue fuoriusciva: mi hanno messo un laccio emostatico. Tra questo e la gamba storta mi sono spaventato abbastanza. Ho tutti i legamenti rotti e una volta che si sarà sgonfiata, dovranno operarmi. Ci vorranno sette mesi, prima che torni a camminare».
Tutto in un attimo. Raccontaci cos’è successo.
«Eravamo in cinque davanti e io ho preso l’ultimo chilometro in testa, visto che era brutto volevo prenderlo davanti. Brutto perché era in discesa, curva a gomito a destra e poi una grata a trecento metri dall’arrivo. Io ho preso la curva in testa, come ho girato la curva ho lanciato la volata: ero in testa, fino ai cinquanta metri tutto bene, stavo già per alzare le braccia e di colpo mi vedo questa macchina e non ho avuto neanche il tempo di frenare ai 57 all’ora. Un’immagine che se ci penso, mi viene ancora da piangere adesso e ho ancora i brividi. Ogni volta che mi addormento ho la scena di questa macchina che mi taglia la strada. Per fortuna sono andato contro la macchina di lato e non di testa, se fossi andato di testa forse non sarei qui a raccontarlo. È stata brutta la scena appena mi sono alzato: ho visto la gamba storta, tutto il sangue che usciva e mi sono spaventato. Poi l’ambulanza ci ha messo mezz’ora ad arrivare a Savona, è stata una mezz’ora molto lunga, tra gente disperata e l’anarchia più totale».
Avrai ancora la forza di tornare in bici?
«Poteva andare molto peggio. Adesso dovranno operarmi e ricostruire i legamenti. Perderò tutto il muscolo, dovrò fare un mucchio di riabilitazione e fisioterapia e non so se tornerò come prima, spero di sì. Non ho avuto nessuna cosa invalidante, nel male è andata di lusso. Non posso dirlo se tornerò come prima o no, però in realtà la ricostruzione dei legamenti è una cosa che ormai fanno bene e poi si recupera. Sarebbe stato peggio se avessi riportato anche una frattura. Mi hanno detto che ci vorranno dai sei agli otto mesi, dipende da me. Se va bene tornerò in bici tra febbraio e marzo. Poi oltretutto io lavoro in piedi perché sono meccanico-ciclista, per stare in piedi ci metterò tanto. Come prima riabilitazione fanno fare la cyclette e probabilmente pedalerò prima di camminare».
Tornando a domenica: a Savona si poteva fare di più sul piano della sicurezza?
«Noi siamo cicloamatori e la bici la facciamo per divertimento. Ma se pensi che io e altri quattro abbiamo rischiato di perdere la vita in una gara per vincere una salsa e un salame, se ci pensi non ne vale veramente la pena. Noi la facciamo perché è la nostra passione e il nostro gioco, ma se uno ci pensa vai a pagare per rischiare la vita e non ha veramente senso. Io corro da 17 anni, sono stato un dilettante e faccio venti Gran Fondo all’anno. Una cosa del genere non era mai capitata e non deve capitare: posso capire una macchina che spunta sul percorso e ci può stare perché non puoi controllare tutto, lungo il percorso di una Gran Fondo, ma gli ultimi cinquanta metri di una volata non puoi immaginarti che una macchina ti spunta all’improvviso, è inconcepibile. Gli ultimi cinquanta metri di una gara devono essere transennati, invece lì c’era una strada libera senza nessuno che fermava. Lì doveva esserci una forza dell’ordine, un vigile, un poliziotto, qualcuno che non facesse entrare nessuno. Ma poi per di più all’arrivo: eravamo in quattro in volata e il gruppo era a due minuti di distacco, quindi era questione di un minuto. Se questo qua fosse uscito un minuto dopo, non sarebbe successo niente. È uscito proprio nel momento della volata, sembra fatto apposta, la parte incredibile è questa. Il ragazzo poveretto è uscito da un quartiere di sopra, però sei anche un po’ imbranato perché vedi che c’è una gara, fermati. Ma hanno sbagliato gli organizzatori perché non hanno messo una transenna in quella strada, un vigile o altro. La colpa è di chi lo ha fatto passare».
Mattia, vi siete sentiti con il ragazzo che guidava la macchina?
«Ieri ha chiamato in ospedale, ha parlato con un’infermiera piangendo e voleva venirci a trovare. Poveretto, anche lui ha avuto un bel trauma alla fine. A Savona, è stata una somma di errori e concomitanze ed è andata così, una cosa incredibile».
E con tua sorella Erica?
«Quando mi sono svegliato qua a Pietra Ligure, la prima persona che ho visto è stata lei. Non ci credevo, pensavo fosse un sogno perché lei era in Trentino per i campionati europei e invece era appena arrivata a casa la mattina e come sono arrivato in ospedale era qua. Se ci penso mi viene da piangere ancora adesso: mi è rimasta vicino in questi giorni, poi lei è medico mi capisce, mi sta vicino e mi dà dei consigli. In questo momento è fondamentale per me, perché oltre a essere una professionista è un medico e quindi mi sta aiutando giorno dopo giorno a superare questa cosa e meno male che c’è lei».
Allarghiamo l’orizzonte: in Italia andrebbe fatto uno scatto culturale nei confronti dei ciclisti?
«Mi alleno tutti i giorni in pausa pranzo. L’anno scorso ho fatto 23mila chilometri, ma è sempre peggio. Non so se ancora quest’anno con il Covid, la gente è nervosa, ma sembra proprio che lo fa apposta: passa a raso di noi ciclisti, ti taglia la strada e ogni volta che siamo in bici rischiamo la vita. Ormai alle rotonde, non fai più la mossa di passare: ti fermi, guardi che non passi una macchina, perché se passi ti ammazzano. Senz’altro non pensavo che sarebbe potuto succedere in una gara e specialmente negli ultimi cinquanta metri di volata. L’arrivo deve essere inviolabile, non deve entrarci nessuno. Così, come è accaduto a Savona, sembra fatto apposta, sembra un attentato».